“Burattino di Putin”, “amico di Trump”: le ombre che restano su Assange
Julian Assange è un uomo libero, evviva la libertà. Nel giorno del suo patteggiamento con la giustizia americana è utile dissipare il gigantesco equivoco su questo personaggio.
Il mito di Assange, l’adorazione di WikiLeaks, fanno parte di una gigantesca impostura che ha obnubilato l’Occidente in una fase recente e cruciale della nostra storia. La leggenda del suo martirio si mescola e si confonde con le campagne di disinformazione manovrate da Vladimir Putin e Xi Jinping.
Se l’Occidente non ha visto arrivare le offensive strategiche dei suoi antagonisti, se in seguito si è diviso fino alla frantumazione odierna, lo si deve anche al fatto che è cascato in una trappola-Assange. (Tra le vittime collaterali: il fenomeno WikiLeaks ha accelerato una crisi del giornalismo tradizionale, ha contribuito a spostare il baricentro dell’informazione verso i social, ha collaborato alla creazione di una nuova religione della Rete come portatrice di democrazia).
Assange fu un benefattore dell’umanità, un combattente per le nostre libertà, magari anche l’inventore di un «nuovo giornalismo»? Così venne descritto a lungo. Tanti mezzi d’informazione pubblicarono gli tsunami di «rivelazioni» di WikiLeaks, un po’ con gli stessi automatismi con cui da Tangentopoli in poi si pubblicavano gli «scoop» delle procure.
Il mito di Assange è crollato in seguito, soprattutto grazie all’indagine americana sul cosiddetto Russiagate, la pista che legava Trump a Putin. Ricordo che il Russiagate si è concluso con un nulla di fatto, l’istruttoria ebbe molti aspetti discutibili, non c’erano le premesse di un impeachment. Però da quell’indagine apprendemmo molte cose. Nell’indagine sull’ingerenza di Mosca per sabotare la campagna elettorale di Hillary Clinton, vediamo Trump Junior e altri strettissimi collaboratori del candidato repubblicano che contattano direttamente WikiLeaks perché aiuti il tycoon newyorchese pubblicando segreti infamanti su Hillary e sul partito democratico. Il fango arriva puntuale, la fonte sono gli hacker del governo russo. Donald Junior «ispira» il babbo che in un tweet fa esplicita pubblicità… ad Assange: «I media disonesti – tuona il candidato repubblicano nel 2016 – non stanno divulgando le rivelazioni di WikiLeaks».
Che il confine tra Assange e Putin fosse labile, Trump Senior sembrava averlo intuito già da tempo. Il 27 luglio 2016 in una conferenza stampa in Florida – in contemporanea con la convention democratica di Philadelphia – il candidato repubblicano lancia davanti alle telecamere tv questo appello inaudito: «Russia, se mi stai ascoltando, spero che riuscirai a trovare le 30.000 email di Hillary!». I media non riescono a credere che un candidato alla Casa Bianca chiami in aiuto il nemico storico dell’America in modo così sfacciato. Pochi si stupiranno invece, quando a esaudire il desiderio di Trump sarà proprio WikiLeaks, che a quel punto è divenuto il fattorino abituale delle consegne in arrivo da Mosca.
Torniamo indietro di sei anni, rispetto alla vittoria di Trump contro Hillary. Novembre 2010: le rivelazioni di WikiLeaks scuotono il mondo. Italia inclusa. La fonte, la «gola profonda» Chelsea Manning, è una militare americana che passa ad Assange – fra le altre cose – 250.000 comunicazioni top secret («cable» o dispacci diplomatici) fra le ambasciate Usa del mondo intero e il Dipartimento di Stato a Washington. Il botto italiano lo fanno i giudizi segreti dell’ambasciata di Via Veneto sulla «torbida connection» (definizione della diplomazia Usa) tra Berlusconi e Putin. L’allora presidente del Consiglio in un dispaccio dell’ambasciatore Ronald Spogli, repubblicano, è sospettato di avere «rapporti di guadagno personale», e di essersi trasformato in un «portavoce di Putin», cioè del capo di una «nazione mafiosa» come viene descritta in quelle conversazioni riservate tra diplomatici americani.
La vicenda italiana è poca cosa in confronto a quel che accade in altre parti del mondo. Per esempio in Nordafrica: le missive della diplomazia Usa svelano informazioni dettagliate sulla corruzione di alcuni autocrati. È una delle scintille che accendono le rivolte in Tunisia, in Egitto, l’origine delle Primavere arabe. È il momento della massima popolarità di Assange. L’informatico australiano, fondatore di WikiLeaks nel 2006, viene osannato come un eroe della trasparenza, un combattente per i diritti umani. Quando viene arrestato una prima volta dalla polizia inglese il 7 dicembre 2010, tra le celebrity che raccolgono fondi per pagargli la cauzione c’è il regista Michael Moore. Parte una campagna sui social media, capeggiata da Anonymous, per farlo nominare uomo dell’anno sulla copertina di Time.
Un segnale sospetto arriva però nel 2013, quando l’altra «gola profonda» Edward Snowden per sfuggire agli inquirenti americani trova rifugio a Hong Kong, sotto la protezione del governo cinese. Mentre è lì, Assange gli consiglia di trasferirsi in Russia (dove Snowden si trova tuttora).
A metterci tutti in guardia nel 2013, interviene un anziano precursore di Assange e Snowden. L’ottantenne John Young, un decennio prima aveva creato Cryptome, gigantesco deposito di 70.000 documenti riservati, forniti da «gole profonde» e messi a disposizione del pubblico. Pluri-indagato dall’Fbi, ma contrario a trasformarsi in un martire e in una star, Young dice: «La trasformazione (di Assange) in celebrity è manipolazione e controllo». Su Snowden rifugiato in Russia: «Ambizioso, ingenuo, strumentalizzato, una marionetta».
A quell’epoca comincia ad avere dei ripensamenti Bill Keller, che era stato direttore del New York Times quando il quotidiano decise di ospitare le rivelazioni di WikiLeaks. Keller disse: «La pressione per pubblicare la notizia subito, la concorrenza 24 ore su 24, può far commettere errori».
Una puntata decisiva va in scena nell’estate del 2016, è la fragorosa divulgazione di email segrete rubate dai database del partito democratico Usa. Denunciata, forse troppo tardi, da Barack Obama. L’intelligence Usa raccoglie prove che puntano in una direzione: il materiale che WikiLeaks fa circolare lo hanno rubato i russi. Un mese prima del voto, il New York Times mette insieme un dossier di accuse che stavolta è rivolto contro il «mito» Assange. Gli rinfaccia di essere un divulgatore di segreti a senso unico. Mai nulla che possa disturbare la Russia, la Cina… o Donald Trump. Assange si difende blandamente, spiegando di non avere mai ottenuto segreti degni di qualche interesse sulla Russia o sulla Cina o su Trump.
Un esempio eloquente: WikiLeaks ha pubblicato tante notizie su stragi americane in Iraq, zero sui bombardamenti russi in Siria. E per sapere qualcosa sulle immense ricchezze del clan di Xi Jinping bisognava leggere i reportage di Bloomberg, Wall Street Journal, New York Times: che verranno castigati duramente dalla censura cinese. Assange su questo fronte non ha mai prodotto scoop. Pur senza ammettere nulla sulla provenienza delle email rubate, lui dichiarava: «Anche se la fonte dei segreti fossero i servizi segreti russi, li pubblicherei».
I cori che inneggiavano all’eroe della trasparenza Julian Assange col passare degli anni si sono attenuati. Troppo tardi. Il danno ormai era fatto. In nome di una presunta modernità, affascinata dalla sofisticata cultura tecnologica che WikiLeaks condivide con hacker e cyber-pirati, una parte dell’élite occidentale è cascata in questa trappola.
In Italia quella stagione coincise con il «modello Casaleggio», la Rete idolatrata come apogeo della democrazia. Il danno più grave, in una prospettiva storica, forse fu l’innamoramento di Obama verso le Primavere arabe, un abbaglio favorito dal fatto che tanti giovani egiziani tunisini libici scesero in piazza contro i dittatori usando Facebook e l’allora Twitter. Quindi… erano dei nostri. In parte quell’errore di Obama lo stiamo pagando ancora oggi, in Nordafrica e Medio Oriente.
Il mito di Assange fu un tassello di quell’epoca di illusioni, in cui non vedemmo i veri burattinai all’opera dietro WikiLeaks.
Oggi la notizia della liberazione di Assange ci ricorda che vivere in Occidente è un privilegio; anche per lui. Chi viene beccato da Putin o da Xi a divulgare segreti di Stato russi o cinesi subisce un altro genere di trattamento.
Corriere della Sera, di Federico Rampini