Il massacro di Ponticelli, l’errore giudiziario che ha bruciato le vite di Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca
La scena: il rione Incis di Ponticelli, Napoli. L’anno: lo stesso dell’arresto di Enzo Tortora e dei falsi pentiti, gestiti dai carabinieri della Caserma Pastrengo, che lo accusarono. Dalla piazzetta del rione Nunzia e Barbara spariscono alle 19,30 del 2 luglio. Il giorno dopo le trovano nell’alveo del Pollena, vicino la sopraelevata in costruzione, la scena è raccapricciante, prima violentale, poi uccise ed infine i loro cornicioni bruciati. Il sopralluogo è fatto male, qualche foto e qualche oggetto portato via senza criterio. Polizia e carabinieri indagano in parallelo, senza comunicare. Dopo 27 anni di carcere, Certo Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca, all’epoca poco più che maggiorenni, furono condannato all’ergastolo, ritenuti i carnefici di quell’atroce delitto. Adesso i tre uomini sono liberi ma sulle loro spalle c’è un macigno terribile.
Il medico legale dice che le numerose ferite sono state inferte con uno strumento da punta e taglio: non tutte sono profonde, quindi l’assassino si è “divertito” con almeno 13 colpi a Barbara e almeno 19 a Nunzia, che ha subito anche violenza carnale. Dice che la morte è avvenuta a tarda notte, non tra le 20 e le 21 come dicono i carabinieri nella loro ricostruzione e come sempre diranno.
I testimoni
Imperante, Schiavo e La Rocca sono del rione, vengono da famiglie di lavoratori, nessuno ha precedenti. Li interrogano in caserma per ore e, come per altri interrogati, i carabinieri menano forte. Botte con una mazza di legno, con la frusta. Sberle e urla.
Silvana Sasso, 9 anni, amica delle vittime, viene interrogata anche 4 volte in un giorno, anche di notte. Dichiara che la mattina di sabato 2 luglio Barbara, dal balcone di sopra, le ricordò che avevamo appuntamento insieme a Nunzia vicino la pizzeria “La Siesta” con un certo Gino, uno che ha la 500 verde scuro. Era per un gelato, era un appuntamento segreto. Silvana l’aveva visto un paio di volte, lo descrive: alto, robusto, lentiggini, biondo, baffetti, detto “Tarzan tutto lentiggini”. La nonna però non fa uscire Silvana, che si salva così dal massacro.
Un’altra bambina, Antonella Mastrillo, vede Nunzia e Barbara andare alle 19,30 verso la pizzeria. Vede anche la 500 nei pressi, ha un fanale rotto e la scritta “vendesi”. Silvana ha dunque detto la verità. Dovrebbe essere facile trovare un’auto così, se solo qualcuno la cercasse davvero. Nel frattempo, quattro magistrati si passano l’indagine.
Carmine Mastrillo, fratello di Antonella, è il teste chiave. Lo sentono 10 volte. Interrogatori anche brutali. Schiaffi, pugni alla nuca. I verbali degli interrogatori di Mastrillo sono un trionfo di ipocrisia: si capisce che ha detto ciò che si voleva dicesse. Lo arrestano. Dà tante versioni. Alla fine dice che alle 20,30 di quella sera Luigi, Giuseppe e Ciro sono venuti alla discoteca “Eco club” per dirgli che hanno ammazzato le bambine. I tempi non tornano: sarebbe successo tutto in meno di un’ora, e alla luce del sole. Un sopralluogo cronometrato non è mai stato fatto. Non torna nemmeno la necessità di dirlo a Carmine. Soprattutto davanti una discoteca.
Anche Salvatore La Rocca, fratello di Giuseppe, confessa. È un ragazzo fragile psicologicamente. Racconta, oggi, di essere torturato. Il giudice lo ritiene reticente e lo arresta. Non lo fanno dormire, lo mettono in una stanza con la luce accesa, lo spogliano, gli buttano l’acqua fredda addosso, lo picchiano allo stomaco, prende sberle sulle orecchie. A quel punto firma ulteriori accuse ai tre ragazzi.
Nessuno di loro ha le lentiggini, una 500 verde, i baffetti o è biondo, ma sono colpevoli lo stesso. Chi dà loro l’alibi viene minacciato e insultato. Giuseppe viene interrogato 15 giorno dopo e ovviamente non ricorda cosa ha fatto quella sera.
Ma dove sarebbero state uccise le bambine, se nel canale sono state solo bruciate? Vicino il cinema Alba di Volla, dice Mastrillo. All’epoca c’erano molte terre coltivate intorno. Nel campo dove sarebbe stato commesso il delitto, però, non c’è alcuna prova, il verbale di riconoscimento del luogo non ha la firma di Mastrillo, i proprietari del terreno ci stavano lavorando sopra in quell’ora e non si sono accorti di nulla.
Ciro, Giuseppe e Luigi finiscono all’ergastolo. Nel 1989 e nel 1997 due richieste di revisione vengono rigettate. Una terza lo sarà nel 2013. Nonostante le indagini siano state folli e violente. Ci sono dei sospettati alternativi, ma non li hanno mai indagati davvero.
Avevano tre mostri invece di uno, perché cercare ancora? E invece il vero colpevole è libero. Potrebbe avere ancora un nome e un cognome, questo pedofilo, se qualcuno lo cercasse. E se un giudice dichiarasse che Ciro, Luigi e Giuseppe sono oggi quello che erano anche ieri: innocenti.
La Nuova Pista
Adesso, c’è una nuova inchiesta della Procura di Napoli. A 40 anni dall’efferato duplice delitto, grazie al lavoro della Commissione parlamentare Antimafia, verrà condotta una nuova inchiesta. “Finalmente il prezioso lavoro che abbiamo fatto porta a dei frutti concreti” ha fatto sapere la deputata Stefania Ascari, capogruppo M5s in Commissione Antimafia. “Abbiamo acquisito gli atti dei processi riscontrando, con i mezzi di cui disponiamo oggi, che le prove che hanno determinato la condanna di tre persone sono deboli e troppi elementi sono stati trascurati”.
“Soprattutto, nelle scorsa legislatura e anche in quella in corso, abbiamo chiesto – prosegue Ascari – che venissero sentiti i pentiti di camorra Starace, Sarno, Galasso e Delli Paoli. Proprio Sarno e Galasso in carcere avrebbero garantito la protezione ai tre condannati per il massacro: essendo a conoscenza della loro innocenza, avrebbero fatto sì che non subissero nessuna delle ritorsioni che di solito il disumano codice non scritto del carcere riserva a chi si macchia di violenza su donne o bambini. Il lavoro in commissione Antimafia deve andare avanti, in piena sinergia con gli investigatori di Napoli”.