CASO SCOPPOLA, LA CASSAZIONE RECEPISCE DIRETTIVE INIQUITA’ PENA
- Luca Peruzzi
- 20 set 2018
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Corte di Cassazione, Sezione quinta, sentenza n. 16507/10; depositata il 28 aprile
Con la sentenza della V sez. pen. n. 16507 del 11/02/10, depositata lo scorso 28 aprile, la Cassazione scrive la parola “fine” sull’affaire Scoppola che ha tanto animato il dibattito giurisprudenziale degli ultimi anni e che è costato all’Italia ben due condanne da Strasburgo per la violazione degli artt. 3, 6, 7 e 46 CEDU (tutte queste pronunce sono qui consultabili tra i documenti correlati alla presente nota). Ha recepito il principio di diritto, recentemente stabilito dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo del 17/11/ 09 (e non dell’11 come erroneamente indicato nella decisione), che imponeva di commutare la pena dell’ergastolo, originariamente inflitta all’imputato, con quella più mite “della reclusione a trenta anni”, così come previsto dal novellato art. 442 cpp.
Si ripercorrano le tappe di questo “caso” per poter comprendere meglio l’importanza degli aspetti procedurali e sostanziali affrontati dalle citate deliberazioni. Nel 1999, a seguito di un litigio con uno dei suoi bambini, il reo, disabile in sedia a rotelle, uccise la moglie e ferì un figlio. Fu rinviato a giudizio per questo reato e “per tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia, possesso illegale di arma da fuoco”. Pur avendo richiesto di essere giudicato col “rito abbreviato” fu condannato all’ergastolo, così come previsto dalla lettera dell’art. 442 cpp allora vigente, pena confermata dai successivi gradi di giudizio (v. Cass. sez. I n. 2592/03).
Esso stabilisce che, in caso di condanna all’ergastolo, per effetto dell’applicazione del c.d. rito premiale, tale punizione “è sostituita con quella della reclusione di anni trenta”. Se la sanzione è relativa, però, al “concorso di reati” od al “reato continuato” sono inflitti l’ergastolo e l’ulteriore misura “dell’isolamento diurno”, come nella fattispecie. Nello stesso giorno in cui il tribunale emetteva la sua condanna, era approvato il D.Lgs. n. 341/00, poi convertito nella L. n. 04/01 (“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, recante disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia”, G.U. n. 16/01), in seguito, ripresa anche dalla c.d. “Legge ex Cirielli” del 2005 (L. n. 125/05; v. amplius Rispoli “La prescrizione riformata con la ex Cirielli e disposizioni transitorie. Termine di (in)applicabilità della nuova normativa più favorevole” Cass. SS.UU. pen. n. 47008/09 e Manzella “Alle Sezioni unite il nodo dell’applicabilità della “prescrizione breve” ai processi pendenti in appello e in cassazione”, Cass. pen. sez. II ord. n. 47395/09, rispettivamente negli arretrati del 19 e 18/12/09).
Questo decreto introduceva una “disposizione, definita di interpretazione autentica”, l’art.7, con cui, de facto, si riformava la sopra menzionata norma abrogando l’isolamento diurno per queste ipotesi. In particolare l’art. 8 prevedeva: “Nei processi penali in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, nei casi in cui è applicabile o è stata applicata la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, se è stata formulata la richiesta di giudizio abbreviato, ovvero la richiesta di cui al comma 2 dell’articolo 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, l’imputato può revocare la richiesta nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In tali casi il procedimento riprende secondo il rito ordinario dallo stato in cui si trovava allorché era stata fatta la richiesta. Gli atti di istruzione eventualmente compiuti sono utilizzabili nei limiti stabiliti dall’articolo 511 del codice di procedura penale […]”. L’ulteriore gravame per ottenere l’applicazione di queste norme ex art. 625 cpp era respinto dalla Cass. pen. sez. V n. 42218/04.
Nel frattempo il reo, come detto, aveva presentato due distinti ricorsi alla CEDU: uno per il denegato trasferimento ad un carcere adeguatamente attrezzato per i detenuti nelle sue delicate situazioni di salute, l’altro per la revisione della pena e la relativa riduzione secondo i parametri introdotti dalla sopra menzionata novella. L’Italia è stata condannata per la violazione di questa convenzione, nello specifico, rispettivamente, dell’art. 3, poichè non aveva garantito che “tutti i detenuti siano trattati con condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che le modalità di esecuzione della pena non eccedano il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione stessa e che la salute ed il benessere del detenuto siano garantiti in modo adeguato, in particolare con la somministrazione delle necessarie cure mediche” (cfr Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, sez. II, del 10/06/08, Requête n. 50550/06, qui in allegato; sullo stesso argomento “Il carcere non deve avere barriere architettoniche”, CEDU del 24/10/06 nel quotidiano del 28/10/06) e degli artt. 6 e 7 (CEDU, “Grand Chamber. Application no. 10249/03”, del 17/09/09; per ogni altro approfondimento si rinvia in toto al testo delle citate decisioni), nonché per aver disatteso l’analoga convenzione ONU. In estrema sintesi, nella prima sentenza comunitaria, la Corte di Giustizia ha accolto, per questi motivi, le richieste del reo che lamentava come, “per la presenza di barriere architettoniche […] non potesse godere dell’ora d’aria”. Inoltre il carcere, ove inizialmente era detenuto, non era in grado di garantirgli “l’assistenza medica continua 24 ore su 24” di cui necessitava per le numerose patologie e la depressione di cui era affetto, così come evidenziato da un ricovero in ospedale “per la rottura del femore”. Malgrado la richiesta d’intervento “del Garante dei diritti dei detenuti per il Lazio”, questi non era stato in grado di prospettare soluzioni alternative per la tutela degli interessi dello Scoppola, né gli erano state applicate misure tali da rendere meno gravosa questa condizione, sebbene ciò fosse previsto dall’art. 141 cp (ora abrogato). Per un breve periodo era stato ammesso “ai domiciliari”, ma anche questa scelta si era dimostrata incompatibile con lo stato di salute del reo (cfr ex multis “affaire Farbthus c. Lettonie (no 4672/02, 2 décembre 2004) […]Price c. Royaume-Uni, no 33394/96, § 24, CEDH 2001-VII, Mouisel c. France, no 67263/01, § 37, CEDH 2002-IX, et Gennadi Naoumenko c. Ukraine, no 42023/98, § 108, 10 février 2004)[…] Papon c. France (no 1) (déc.), no 64666/01, CEDH 2001-VI ; Sawoniuk c. Royaume-Uni (déc.), no 63716/00, CEDH 2001-VI, et Priebke c. Italie (déc.), no 48799/99, 5 avril 2001)” e conformi). Solo nel 2006 “la direzione generale per i detenuti del Ministero di Giustizia” italiano “ordinò il trasferimento presso il carcere di Parma”, avvenuto, però, solo verso la fine del 2007, perché dotato delle strutture e delle attrezzature atte a prestare la dovuta assistenza e rendere “confortevole” l’esecuzione della pena, così come esplicato da due successive note del “Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria” del medesimo dicastero.
Nel condannare l’Italia per la violazione degli artt. 3, 14 e 35, ricordando che anche un’ordinanza del Tribunale del riesame aveva stigmatizzato “il trattamento inumano”, per le ragioni sinora espresse, cui era stato sottoposto Scoppola, fa un espresso richiamo alla “application n. 10249/03” allora pendente presso la Grand Chambre e decisa da questo collegio lo scorso 17 settembre e di cui faceva parte anche il presidente di quello che ha emesso questa sentenza (Tulkens). Questa ultima pronuncia, in realtà, è quella che ci interessa maggiormente e su cui si fonda la statuizione della Cassazione qui annotata, poiché, anche se non assunta all’unanimità, ha enunciato il principio di diritto recepito dalla medesima Corte. In breve ha ritenuto che l’emendato art. 442 cpp fosse “una norma sostanziale e non processuale” e che, di conseguenza, non potesse essere considerata come interpretativa. Infatti il Governo non aveva “prodotto alcuna sentenza a dimostrazione dell’esistenza di un conflitto interpretativo in ordine al testo dell’art. 442 cit., come riformato nel 1999” e, perciò, non poteva essere qualificata come disposizione esegetica. Essa, però, per i principi di tassatività, di legalità e di successioni delle leggi, stabilito dall’art. 2, commi II e III cp, imponeva che all’imputato fosse applicata la pena più lieve stabilita dalla legge più recente. Erano stati sollevati dubbi sul regolamento nazionale sulla pubblicazione delle leggi nella Gazzetta ufficiale, da cui si fa discendere la loro validità e la loro obbligatorietà, perché sanciva e sancisce tuttora che le stesse debbano essere edite nel pomeriggio, mentre la sentenza in esame era stata emessa la mattina, così che il magistrato non aveva recepito la suddetta disposizione più favorevole. La CEDU, invece, ha evidenziato che ciò aveva violato l’art. 7, “così come modificato dall’evoluzione del diritto internazionale”, poiché il nostro ordinamento prevede il sopra citato principio di legalità, in base al quale nessuna sanzione può essere inflitta se non espressamente prevista dal nostro ordinamento (v “see, among other authorities, Coëme and Others v. Belgium, nos. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 and 33210/96, § 145, ECHR 2000-VII)” sent. cit. CEDU del 17/09/09). Inoltre, se esso, da un lato, sancisce un principio di irretroattività della legge, contestualmente, dall’altro, ne prevede uno opposto secondo cui, in caso di successioni di leggi, si applicano le disposizioni più favorevoli al reo. In tal modo doveva essere condannato alla reclusione di “trenta anni” (cfr “Fera v. Italy judgment (no. 45057/98, 21 April 2005) []see the judgment of 3 May 2005 in joined cases C-387/02, C-391/02 and C-403/02[] Mione v. Italy (dec.), no. 7856/02, 12 February 2004, and Rasnik v. Italy (dec.), no. 45989/06, 10 July 2007; see also Martelli v. Italy (dec.), no. 20402/03, 12 April 2007, concerning implementation of a law containing new rules on the assessment of evidence, and Coëme and Others, cited above, §§ 147-149, on the immediate application to pending proceedings of laws amending the rules on limitation” CEDU sent. cit.). Infine Strasburgo rilevava come “il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri” e che in base all’ulteriore brocardo “tempus regit actum” il giudice di prime cure, così come quelli interessati dai successivi gravami, avrebbero dovuto revisionare la condanna ed applicare l’evidenziata pena più lieve, tanto più che essa era prevista dalle regole sul rito abbreviato e sugli altri analoghi riti premiali. Con essi l’imputato rinuncia formalmente ad alcune garanzie per ottenere dei vantaggi processuali, come, per l’appunto, una più mite punizione (art. 6 CEDU). Per correttezza d’informazione va anche rilevato che, in seno a questa decisione, si era registrata un’opinione minoritaria e contraria a questa massima. Essa sosteneva che “invero il principio della lex mitior non fa parte di tale norma, né può essere considerato un suo diretto corollario.”. Sottolineava inoltre che Strasburgo aveva sancito severi limiti all’interpretazione evolutiva, poiché essa “non può far derivare dalla Convenzione e dai suoi protocolli un diritto che questi strumenti non prevedono”. La Cassazione, infine, ricorda come l’art. 46 CEDU imponga “ai paesi contraenti” di recepire “le sentenze definitive dei processi in cui sono parti” ed ai relativi Governi di sorvegliarne “l’esecuzione, atteso che dal sistema convenzionale deriva l’obbligo di dare esecuzione alle sentenze della Corte Europea”. Questo dovere è stato recepito anche dalle riforme delle fonti di diritto, da quelle del “casellario” e del codice di procedura civile (DPR n. 289/05 e L. 12/06), che hanno espressamente riconosciuto come cogenti tali pronunce e come le norme di diritto comunitario, tra cui la richiamata convenzione, siano fonti primarie “superiori” del nostro ordinamento, cioè prevalenti sulle eventuali contrastanti disposizioni nazionali. Si notino, in conclusione, i dubbi sollevati dalla S.C. sulle modalità di adozione di un provvedimento per la “restitutio in integrum” dei diritti dello Scoppola in ottemperanza degli oneri comunitari, rinviando al testo delle annotate sentenze di legittimità, italiana ed europee, per ogni ulteriore approfondimento sul punto e sugli altri aspetti processuali. Infatti nella fattispecie non è stato ritenuto necessario ricorrere ad un nuovo processo, ma semplicemente annullare le precedenti decisioni “limitatamente al trattamento sanzionatorio” determinandolo “in anni trenta di reclusione”, poiché le irregolarità, oggetto del suddetto “obbligo positivo” di ricezione delle massime della CEDU, riguardavano solo questo aspetto procedurale e non le modalità di svolgimento del processo e di formazione della prova.
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