Progetto InnocentI

La dimensione giuridica della prova scientifica tra condivisione nella comunità scientifica e ricerca sperimentale

IL DNA FORENSE NON SI SOTTRAE AL PRINCIPIO PENALISTICO DELL ” OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO”

di Silvia Dariz

Il DNA – ovvero la prova genetica – non può definirsi scientifico a priori solo perché è un dato ottenuto con mezzi tecnici, ma deve definirsi tale solo quando tutta la procedura che ha portato all’emissione del dato, nonché la valutazione del risultato analitico stesso, è conforme a norme e protocolli ed è altresì concorde in materia di interpretazione del risultato e del suo significato probatorio.

Il DNA è ormai definito “prova regina”, dal momento che ha contribuito a risolvere molteplici casi giudiziari permettendo di identificare in maniera certa ed univoca soggetti che avevano lasciato tracce di interesse giudiziario. Invero, il DNA, grazie alle nuove tecnologie di indagine bio-molecolare note come New Generation Sequencing (Xinkun Wang, Next Generation sequencing data analysis, Editore: CRC Press, 2016) è in grado di fornire a tutte le parti processuali certissime informazioni in termini di identificazione personale univoca. A mezzo del DNA si è in grado di conoscere tutte le lettere componenti questo immaginario codice fiscale che rende unici e distinguibili tra loro, con sicuri margini di discriminazione, tutti gli esseri umani. Dal punto di vista scientifico, l’analisi sinergica dei prescritti marcatori genetici fa sì che ogni profilo di DNA, analizzato seguendo gli odierni standard scientifici e giuridici, sia fattivamente unico e specifico per una determinata persona.

Nel panorama internazionale, la comunità scientifica dei genetisti forensi, spinta da ragioni etiche e gnoseologiche, ha ampiamente denunciato diversi casi nei quali, a livello investigativo e processuale, la prova del DNA è stata utilizzata in modo improprio, ovvero è stata enfatizzata ed iper-valutata sotto il profilo della valenza probatoria, in alcune ipotesi determinando vere e proprie storture del sistema giudiziario, o, addirittura, a causa di un uso incauto e troppo confidente delle risultanze del DNA in contesto forense, si è pervenuti a diversi casi di ingiusta condanna (si specifica che, per condanna ingiusta, si intende una sentenza di condanna che sia stata riconosciuta non valida dalle giurisdizioni superiori).

Ad esempio: un primo evidente limite della prova del DNA è dato dalla circostanza che, anche quando si accerta che il DNA di una determinata traccia è certamente di un soggetto, costui può comunque essere estraneo ai fatti. Per cercare di superare detto limite è stato proposto un modello simil matematico per la valutazione del DNA forense, noto come LR ovvero Likelihood Ratio.

Tale parametro è un rapporto matematico in cui si vanno a valutare sotto il profilo numerico le argomentazioni sul DNA portate avanti dall’accusa e difesa nell’analisi interpretativa della risultanza genetica, il cosiddetto elettroferogramma. Nello specifico è prassi diffusa considerare che l’accusa propende per la corrispondenza tra il DNA della traccia rinvenuta e quella dell’imputato, chiedendone, molto spesso principalmente per questo, la condanna; al contrario, la difesa, in tale ipotesi, sostiene, invece, che vi sono “vizi interpretativi e tecnico-analitici” nell’esame di lettura dell’elettroferogramma, dunque, propende per la non corrispondenza tra il DNA della traccia rinvenute quella del suo assistito al punto di chiedere, per tali motivi, l’assoluzione dell’imputato.

Ed ancora. Se il DNA è il più pregevole mezzo di identificazione forense e scientifica, attualmente a disposizione, detto ha anche caratteristiche limitanti, di notevole rilevanza, quali quelli derivanti dall’impossibilità di conoscere con certezza il momento in cui avvenne il deposito della traccia biologica genetica, laddove rinvenuta. Tale ultimo aspetto è uno dei limiti principali del DNA.

Invero, l’analisi genetica mai può dare informazioni circa la tempistica. Una visione o interpretazione, in tali termini, delle informazioni provenienti dalle risultanze del DNA è disastrosa, perché oltrepassa nettamente i margini di applicabilità dei dati scientifici nel contesto forense. Condizioni del genere, in cui dal DNA si ha la pretesa di individuare, o dedurre ex post, ovvero per correlazione, il tempo di deposito della traccia basandosi sull’elettroferogramma, si pone certamente alla base di un possibile errore giudiziario, certamente colposo, ma che trova il suo fondamento nell’ipervalutazione del significato dei dati scientifici espressi dal DNA. Sotto il profilo processuale va ben specificato che il DNA, specie se singolarmente considerato, è una molecola in grado di fornire risposta al quesito CHI, ma nulla più. Rientra cioè dunque nei mezzi scientifici atti alla identificazione di un dato soggetto in maniera esclusiva, ma non più di quanto appena descritto. In ambito forense, specie in sede di ricostruzione scientifica del fatto reato e nella valutazione di responsabilità dell’imputato, il DNA non è, almeno oggi, in grado di dare la benché minima informazione sul momento in cui, la determinata traccia rinvenuta, analizzata e anche discussa in sede di contraddittorio, venne depositata. Sotto il profilo logico, nonché sotto il profilo giuridico, tale carenza informativa del DNA si traduce in una grave omissione di informazioni circa la valutazione della contestualità tra la commissione del fatto reato ed il deposito della traccia. E’ manifesto che per addivenire ad una sentenza di condanna, i magistrati giudicanti non dovranno solo valutare la compatibilità del DNA dell’imputato con quella della traccia, bensì , dovranno anche chiaramente avere tutta una serie di informazioni che, per giungere alla soglia di richieste dell’oltre ogni ragionevole dubbio, fanno sì che vi sia assoluta certezza che il deposito della traccia in esame avvenne solo perché l’imputato stava materialmente ponendo in essere il delitto per il quale si ritrova sotto processo. Tale fattore, ovvero la valutazione della contestualità tra traccia di DNA e fatto reato non potrà, né dovrà mai essere presunta a priori, perché altrimenti così facendo si rischia di incorrere in una serie di misinterpretazioni forensi delle risultanze scientifiche. È improprio ed antiscientifico proporre di leggere processualmente od investigativamente le risultanze del DNA in termini di valutazioni temporali, dovendo, invece essere promosso e favorito l’uso conservativo ed estremamente accorto di tali risultanze scientifiche DNA-connesse proprio per ragioni di certezza nell’emissione di una qualsivoglia sentenza. Al contempo, altra informazione che l’analisi del DNA non potrà mai fornire è il come avvenne il deposito della traccia rinvenuta ed acquisita. Nello specifico, l’analisi del DNA consente, come già ampiamente descritto, spesse volte, massima certezza sotto il profilo identificativo, ma nulla oltre questo. Come avvenne il deposito della traccia su un reperto, ovvero su un luogo dei fatti è, e deve essere, un fattore di estrema importanza nel percorso di convincimento dei magistrati giudicanti nel corso del contraddittorio. Il DNA potrà assurgere a prova regina solo quando potrà fornire informazioni valide a 360 gradi per i giudicanti per una completa disamina dei fatti accaduti in maniera esaustiva, consentendo la realizzazione della compatibilità tra il fatto storico ed il fatto tipico, la riproduzione esatta dello svolgimento dei fatti delittuosi, la valutazione pertinente della responsabilità dell’imputato. Per addivenire a ciò, ovvero per poter considerare scientificamente la prova del DNA come prova regina, un esame del DNA deve rispondere positivamente ai quesiti CHI, QUANDO e COME. Ne consegue che se e fino a quando il DNA  sarà in grado di rispondere unicamente al quesito CHI, non anche ad offrire qualche dato e qualche elemento di informazione utile, quantomeno ai fini processual-penalistici, quindi, oltre ogni ragionevole dubbio per il giudicante, circa il QUANDO ed il COME, caratterizzandosi per incompletezza informativa, la prova del DNA non potrà e non  dovrà avere la pretesa di configurarsi come prova regina.

In conclusione, allorché uno degli elementi di prova si fondi su criteri e dati scientifici, come nel caso della prova del DNA, occorre dimostrare, nel rispetto dei protocolli, la provenienza e la genuinità del reperto, la legittimità delle operazioni di reptazione, di analisi, di ricostruzione, con esclusione delle probabili, possibili, contaminazioni.

In altre parole, occorre effettuare una ricostruzione scientifica che deve essere considerata il solo metodo, valido di valutazione dei fatti, fondato sull’alta probabilità contrapposta al giudizio indiziario, altamente aleatorio e frutto di impressioni soggettive se non di teoremi colpevolisti, ciò allo scopo di pervenire davvero in maniera radicale al c.d. giudizio oltre ogni ragionevole dubbio.

Anche la prova del DNA, quindi, non si sottrae al rispetto del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, principio cardine cui deve attenersi il giudice nella motivazione assolutoria o di condanna della propria sentenza.

(Riproduzione Riservata)

 

 

 

 

 

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