Progetto InnocentI

Il processo sommario al patrimonio nel sistema delle misure di prevenzione e l’arretramento del diritto in nome della lotta alla mafia

Nella suggestiva sala conferenze del Collegio dei Gesuiti di Alcamo, martedì 21 febbraio 2023, si svolgerà il seminario di studi sul sistema di confisca dei patrimoni illeciti accumulati dalla criminalità organizzata. L’evento organizzato dalla Fondazione Giuseppe Gulotta e da Nessuno Tocchi Caino, con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Trapani, è l’occasione per una seria riflessione sulle criticità del sistema antimafia che, sull’altare di una lotta senza confini alla criminalità mafiosa, sta sedimentando una strumentazione giudiziaria al di fuori dei canoni di diritto del giusto processo, con effetti devastanti a livello macroeconomico e occupazionale.

La misura di prevenzione patrimoniale della confisca è certamente il più efficace strumento di aggressione alla ricchezza illecita accumulata dalle organizzazioni criminali, ma ha un prezzo elevato. Fa molte vittime tra gli innocenti.

Nella sua massima espressione, la confisca di prevenzione disciplinata dal decreto legislativo 159/2011 – meglio noto come codice antimafia – riguarda quei soggetti ritenuti “appartenenti alle associazioni mafiose” e non già i membri di esse, ovvero coloro che partecipano al sodalizio e che cadono, se scoperti, sotto i fulmini dell’arte 416 bis c.p.. – Questi ultimi, per intenderci, sono i veri “mafiosi” che ove condannati subìscono la confisca -c.d. allargata- dei beni rispetto ai quali non viene dimostrata la genesi lecita. 

Per gli “appartenenti” – mai imputati o addirittura assolti in quanto non riconducibili alla fattispecie ex art. 416 bis c.p. – è prevista una forma di confisca ben più insidiosa, che prescinde dalla condanna, e richiede soltanto l’accertamento dell’enigmatica condizione di appartenenza all’associazione mafiosa. Sono i nuovi dannati, difficilmente collocabili in alcuno dei gironi dell’Inferno di Dante.

La singolare  categoria criminologica, già introdotta con la legge 575/65 e ora trasfusa nell’art. 4 lett. a) del decreto legislativo 159/2011, non fa riferimento ad alcun paradigma legale appositamente normato, sicchè per essa si pone l’esigenza di una lettura tassativizzante tanto in ordine alla situazione che genera la pericolosità da appartenenza quanto in relazione alle conseguenze che ad essa conseguono, e ciò  al fine di garantire la piena intellegibilità della legge, anche, al quisque de popolu. 

Eppure a siffatta esigenza di tassatività, espressione del principio di legalità previsto dall’art. 7 Cedu, si è sempre sottratto il “diritto di prevenzione”, in ragione della ritenuta estraneità di esso alla c.d. materia penale. Ben lontano dalla qualità semantica, il testo di legge non consente di fissare con sufficiente chiarezza i connotati fattuali e giuridici dell’appartenenza, diversa dalla partecipazione. In siffatto quadro di incertezza il giudice della prevenzione, nella sua attività di ricognizione degli elementi di pericolosità, ha fatto ricorso a dati empirici piuttosto che a dati oggettivi. Spesso e’ stato sufficiente rilevare un mero rapporto di contiguità del proposto (anche culturale) con un’associazione mafiosa o una episodica interessenza affaristica, per ritenere raggiunta la soglia della c.d. appartenenza, nella supposizione di una indefinita traslazione del “potere” mafioso all’impresa con ipotetico rafforzamento (indebito) di essa nel mercato.

Ma, il vero problema è che il giudice non deve nemmeno accertare l’appartenenza alla criminalità mafiosa del proposto piuttosto deve limitarsi all’apprezzamento di semplici indizi di appartenenza, indizi che non sono quelli di cui all’art. 192 c.p.p. (gravi, precisi e concordanti) ma semplici sospetti derivanti dallo stile di vita, dalle frequentazioni personali, dall’attività svolta dal proposto. In altre parole, un sistema fuori controllo legale nel quale il soggettivismo del giudice non incontra nemmeno il vincolo della ragionevolezza logica del suo provvedimento, tant’è che in sede di ricorso per cassazione non è ammesso alcun sindacato sulla motivazione.

Il procedimento di prevenzione, a differenza del processo penale, non deve accertare l’esistenza o meno di un fatto ma semplicemente se un soggetto possa ritenersi pericoloso sulla base del suo stile di vita: pur dovendo presupporre determinati reati, che si assumono essere stati commessi dal proposto, il giudice è esentato dall’obbligo della prova. Si tratta di un modus operandi difficilmente compatibile con il principio della responsabilità personale di cui all’art. 27 Cost., un vero e proprio “mostro giuridico” che si nutre del pregiudizio ambientale, di dati empirici affermatisi su un malinteso senso di lotta alla mafia (in un caso all’esame del Tribunale di Trapani si affermava la probabilità della contiguità mafiosa dell’imprenditore che aveva costruito un hotel in Castelvetrano, territorio controllato dal noto latitante Messina Denaro Matteo che difficilmente avrebbe consentito questa costruzione senza un suo interesse). Una follia giuridica, ma tant’è.

Nel corso dell’ultimo decennio, il sistema di prevenzione ha esercitato una vera e propria “potenza di fuoco” in grado di cambiare i mercati attraverso la eliminazione di taluni operatori, pregiudicando l’equilibrio naturale della libera concorrenza.

Fino ad oggi, lo Stato ha vinto sempre, ha vinto anche quando ha perso. Si gioca, in effetti, una “partita truccata” perché anche quando l’azione di prevenzione è stata respinta il proposto si è visto restituire le proprie aziende i fortemente indebitate, compromesse da scelte imprenditoriali degli amministratori giudiziari – quando non predatorie – quasi mai adeguate ai particolari business amministrati, e per ciò già fuori dal mercato.

Risarcimento. Nemmeno a parlarne, il codice antimafia non prevede alcuna forma di riparazione o risarcimento per i danni provocati dall’errore giudiziario. Fa parte del gioco, in guerra muoiono i soldati e gli innocenti, e la lotta alla mafia è una guerra.

Questa è la “terra” che non appartiene al diritto – quello dei principi costituzionali e della convenzione europea dei diritti dell’uomo – è la terra di nessuno, la nuova frontiera del diritto penale. L’enorme diffusione che sta avendo l’azione di prevenzione in ragione della costante implementazione delle categorie criminologiche di pericolosità previste dall’art. 4 del codice antimafia ha generato, ormai, un vero e proprio sistema alternativo a quello disegnato dal codice penale e processuale, un sistema fondato non già sulla responsabilità personale per determinati reati ma su una presunzione di pericolosità sociale.

Soltanto recentemente, la Corte Costituzionale con la sentenza 24 del 2019, investita della verifica della conformità costituzionale dell’art. 1 del codice antimafia (pericolosità c.d. generica), ha preso atto della vera natura afflittiva delle conseguenze personali e patrimoniali derivanti dall’applicazione delle misure di prevenzione, affermando timidamente il vincolo del diritto di prevenzione al principio di legalità. Come a dire anche la vergogna ha il suo  limite. Ma, la (nuova) storia del diritto di prevenzione deve ancora essere scritta.

Intanto il danno è fatto. Procedura snella, poche garanzie per il proposto, risultati certi e immediati, non risarcibilità degli errori. Un sistema degno della migliore inquisizione di storica memoria, poco importa se ha fatto una “strage di diritti”.

Benvenuti nel nuovo sistema penale italiano del presunto colpevole.

Baldassare Lauria

 

 

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