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LA PARTECIPAZIONE AD ASSOCIAZIONE MAFIOSA, TRA NECESSITÀ DELLA PREVENZIONE

Corte di Cassazione,Sezione prima, sentenza n. 9097/10; depositata l’ 8 marzo.

Con la sentenza n. 9097/2010, depositata lo scorso 8 marzo (qui leggibile come documento correlato) la Prima Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione si è occupata di una vicenda inerente la presunta partecipazione ad associazione mafiosa da parte di due soggetti residenti in provincia di Modena, avverso i quali sono stati emessi provvedimenti di custodia cautelare in carcere, in quanto indagati per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. Il Tribunale del Riesame di Napoli, con il provvedimento impugnato, respingeva le istanze di revoca della misura carceraria, in quanto riteneva sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico dei prevenuti. Uno degli indagati veniva infatti riconosciuto partecipe all’associazione, in quanto ritenuto in rapporti di familiarità «con gli altri associati al clan e dalla sua assunzione di un ruolo primario nell’agguato nei confronti di» una vittima del clan. Un agguato dalla «chiara matrice camorristica essendo stato»la vittima «punita per avere testimoniato contro» il Capo clan, «ed essendosi voluto, con tale esecuzione, ristabilire la forza intimidatrice del clan e rimarcare le condizioni di assoggettamento e di omertà che il clan aveva istaurato nei confronti dei terzi sul territorio controllato». Senonché, il cosiddetto «ruolo primario» rivestito dall’indagato, non sarebbe consistito nella partecipazione diretta all’agguato, ma in quello di essere «proprietario dell’autovettura» utilizzata dal commando nel corso dell’agguato. In sostanza l’indagato, non partecipando all’agguato, avrebbe semplicemente prestato la propria autovettura ad amici, in forza di un piacere dettato esclusivamente da legame di amicizia. Ed infatti l’indagato, nel corso del Riesame, avrebbe sostanzialmente negato la consapevolezza che l’autovettura sarebbe stata utilizzata per la consumazione di un agguato, ed affermato che la propria condotta era dettata da caratteri «di mera cortesia ed amicizia; non si era quindi trattato di comportamento consistito nell’uso della forza intimidatrice del vincolo associativo, quindi il suo comportamento non poteva essere inquadrato nell’ambito dell’art. 416-bis c.p.». Ed in ogni caso, si lamentava come altri indagati, a parità di condotta – avendo anch’essi prestato le proprie auto ad alcuni esponenti del clan – non siano stati sottoposti a misura custodiale, in quanto per questi «era stato usato il concetto di marginalità del contributo».

Parimenti, al secondo indagato veniva attribuita la partecipazione al clan camorristico, per la «circostanza che il medesimo aveva svolto il ruolo di intermediario per gli emissari» del Capo clan, «che avevano preso il posto di» altro affiliato «nella gestione degli affari illeciti nel modenese, all’indomani del fermo di quest’ultimo, gravemente indiziato per l’agguato» di cui sopra. Anche in tale caso, «il ruolo di intermediario per gli emissari» del Capo clan non sarebbe consistito nella partecipazione diretta ad affari od estorsioni, ma più semplicemente nell’avere l’indagato «accolto» i propri amici, «che erano saliti nel modenese nel giugno del 2008 per riscuotere il danaro provento delle estorsioni in danno degli imprenditori edili, nonché per la spartizione degli utili della bisca clandestina ivi impiantata ed aveva dato loro in prestito la propria autovettura; successivamente nel mese di agosto» l’indagato «aveva nuovamente accolto i due soggetti anzidetti, prenotando per loro una camera d’albergo e lasciando loro in prestito la propria autovettura per consentire loro di girare per la raccolta del danaro». Ma anche in tale caso, l’indagato, nel corso del Riesame, avrebbe sostanzialmente negato la consapevolezza l’accoglienza dei propri amici in casa, o la prenotazione della camera di albergo, fossero strumentali alla consumazione di fatti di reato. Per altro aspetto, «sebbene ai sensi dell’art. 275 terzo comma c.p.p. le esigenze cautelari erano presunte, tuttavia dagli atti del procedimento era desumibile che i fatti si erano verificati in circostanze di tempo e di luogo non ripetibili allo stato, anche per la personalità non certo allarmante del prevenuto».

Il fenomeno mafioso quale vulnus dello Stato democratico e sociale di diritto.

Il fenomeno mafioso costituisce senza ombra di dubbio un vero e proprio cancro della realtà che ci circonda, in grado di arrecare danni ingentissimi all’intero consortium civile, sociale, economico, politico, morale – e forse perfino esistenziale! – nazionale e sovranazionale. Si pensi, in via di primissimo impatto, alle influenze prodotte su una società costretta a convivere con il traffico di sostanze stupefacenti o di armi, il controllo violento del territorio od ancora con atti contro il patrimonio. Ma si considerino ancora gli effetti distorsivi operati sull’economia legale dalle organizzazioni criminali, che in diverse regioni d’Italia assumono connotati devastanti. È il caso ad esempio del mercato di beni e servizi dove, a causa della tendenza delle associazioni malavitose a monopolizzare il mercato locale, vengono stravolte le regole della libera concorrenza, realizzando un sistema basato sul sovra-profitto, lo sfruttamento della posizione dominante, l’imposizione di balzelli ed estorsioni, l’usura, ed in cui l’equilibrio dei mercati e dei prezzi non è sancito dalle regole della domanda e dell’offerta, ma dal ricorso alla minaccia e l’abuso della violenza fisica nonché da tecniche di dumping. Od ancora si consideri il sistema delle commesse pubbliche e degli appalti, in cui le organizzazioni criminali, al fine di occupare tutti i settori dell’edilizia e della programmazione urbanistica, tendono ad inserire direttamente nelle Istituzioni elementi di corruzione e collusione, imponendo ribassi non sopportabili dalle imprese legali per poi sfruttare gli effetti di varianti ed imprevisti. Allo stesso modo si può dire per il mercato del lavoro, in cui le organizzazioni criminali si sostituiscono addirittura allo Stato nel regolare l’accesso al lavoro. In particolare questo non sarà caratterizzato da scelte inerenti il merito e la capacità dei lavoratori, ma sulla base della loro disponibilità a porsi in connessione con ambienti e condotte criminali. Riservando a questi le opportunità migliori ed imponendo un progressivo regime di precarietà a carico dei soggetti deboli e non collusi. E si considerino ancora le ricadute sull’intero mercato finanziario, dove le associazioni criminali riciclano il denaro ottenuto dalle risultanze delle attività illecite, acquistando immobili e quote di partecipazione di imprese appartenenti all’economia legale, innestandosi ancora di più nei suoi rami, per corromperne ulteriormente meccanismi e finalità. Od infine si pensi alle ricadute sul settore tributario, minato da un considerevole fenomeno di evasione ed elusione fiscale e contributiva. Un vero e proprio sistema criminale che, al di là delle eticheggianti e quindi penalmente irrilevanti conseguenze morali sulla società, dagli ultimi rapporti del Censis, costa alla collettività decine di miliardi di euro l’anno, con un impatto negativo sui livelli occupazionali per centinaia di migliaia di posti di lavoro. In tale contesto, è chiaro come ogni cittadino sia chiamato a scegliere continuativamente tra l’affermazione dei principi e dei valori dell’Ordinamento dello Stato democratico, od al contrario la pervasiva espansione delle cellule cancerogene, in grado di corrodere nel profondo le fondamenta dell’intero consortium civile e politico.

La partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso.

In tale contesto, in tema di associazione di tipo mafioso, è stato affermato che la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in «rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale», con cui il soggetto «prende parte al fenomeno associativo» (Cfr., Cass., S.U., 12.07.2005, n. 33748; Cass., Sez. I, 11.12.2007, n. 1470). La partecipazione in sostanza «consiste nel fare parte dell’associazione». Ed a tale riguardo, se è vero che «non occorrono atti formali o prove particolari dell’ingresso nell’associazione», è tuttavia necessario «che un ingresso ci sia stato, che cioè una persona sia divenuta parte dell’associazione, non essendo sufficiente la mera sussistenza di «rapporti» di vicinanza o «di contributo fattivo ad alcuni associati» (Cfr., Cass., Sez. II, 1.09.1994, n. 3663). Allo stesso modo, per affermare la sussistenza di una condotta di partecipazione, non occorre neppure la realizzazione di attività di tipo mafioso, «essendo sufficiente l’aggregazione ad una organizzazione che abbia le caratteristiche di cui all’art. 416-bis c.p.». (Cfr., Cass., Sez. V, 11.11.1999, n. 1631). In tal senso, fermo restando la consumazione di condotte in concreto agevolatrici dell’associazione camorristica da parte degli indagati, resta da comprendere, innanzitutto, se gli stessi abbiano di fatto aderito all’associazione, «facendone parte» in forza di un patto aggregativo. E, per converso, se addirittura gli stessi avessero contezza del fatto che l’accoglienza in casa, la prenotazione della stanza d’albergo, ed il prestito dell’autovettura, fossero strumentali alla realizzazione di fatti di reato, e non consistessero al contrario condotte di cortesia, verso amici giunti nel modenese dal Sud Italia.

Il dictum di legittimità.

Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, sostanzialmente decide di non considerare il quadro ermeneutico citato – indagando sulla sussistenza di una condotta di partecipazione – ma si limita ad affermare la legittimità – o meno – della pronuncia del Tribunale del Riesame. Una decisione necessitata dal fatto che «quando vengono denunciati con ricorso per cassazione vizi di motivazione circa la consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, in vista dei quali il Tribunale del riesame ha confermato l’adozione della misura cautelare della custodia in carcere, questa Corte, in considerazione della giurisdizione di legittimità esercitata, può solo verificare se il giudice di merito abbia dato adeguato conto delle ragioni, che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario emerso a carico del ricorrente». In tale contesto, «il provvedimento emesso dal Tribunale del riesame di Napoli, impugnato nella presente sede, siccome adottato allo stato degli atti, correttamente ha apprezzato la consistenza degli indizi fino a quel momento raccolti a carico del ricorrente». La decisione pertanto si presenta «incensurabile» ed in sede di legittimità, essendo «esente da illogicità e contraddizioni». Ed infatti, la Corte territoriale, dopo avere rilevato le circostanze del prestito dell’autovettura, dell’accoglienza in casa e della prenotazione della stanza di albergo, «ha ritenuto detti indizi adeguati a fondare l’imputazione di partecipazione ad un’associazione criminale di stampo mafioso, operante nella provincia di Caserta e con diramazione in altre regioni, fra cui l’Emilia Romagna, nota come “clan dei casalesi” […] ipotizzata a carico del ricorrente e tali da consentire l’adozione, nei suoi confronti, della misura cautelare della custodia inframuraria». Sotto tale aspetto, a parere della Corte, «la motivazione con la quale il Tribunale di Napoli ha ritenuto il quadro indiziario emerso a carico del ricorrente cosi grave da far luogo alla misura cautelare della custodia in carcere, è da ritenere pertanto congrua ed adeguata». In sostanza, le condotte con cui si presta la propria autovettura, si accoglie qualcuno in casa, o si prenota la stanza di albergo per amici o conoscenti, costituisce a tutti gli effetti un grave indizio di partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso.

Per altro profilo, a nulla valgono le lagnanze in ordine alla disparità di trattamento tra i ricorrenti ed altri indagati, i quali non sarebbero sottoposti a misura cautelare, avendo in concreto consumato la loro medesima condotta – il prestito della propria autovettura -. Infatti, in «sede di legittimità» non è possibile «operare confronti fra la decisione adottata dal giudice cautelare nei confronti del ricorrente e quella adottata dal medesimo giudice nei confronti di altri imputati, trattandosi di valutazioni di merito, che non è dato a questa Corte di riesaminare, atteso che, in tal modo, essa si trasformerebbe in una terza istanza di merito». Ed infatti la «Corte, in considerazione della giurisdizione di legittimità esercitata, può solo verificare se il giudice di merito abbia adeguatamente motivato in ordine alla gravità del quadro indiziario emerso a carico del ricorrente, si da ritenere adeguata la misura cautelare della custodia in carcere».

Segue. La custodia cautelare in carcere obbligatoria.

La legge 23 aprile 2009, n. 38 (c.d. pacchetto sicurezza) tentando di rafforzare la tutela in materia di sicurezza ed ordine pubblico, ha riformulato l’art. 275 co. 3 c.p.p., in ordine ai casi di obbligatorietà della custodia cautelare in carcere. La disposizione, invero, ha inserito tra le ipotesi previste un rilevante numero di fattispecie. In particolare, il nuovo art. 275 co. 3 c.p.p. dispone che “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, e 600-quinquies del codice penale è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. Per altro aspetto, giova ricordare che il comma prosegue affermando che la custodia cautelare in carcere è obbligatoria altresì per “i delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate”.

Di qui, è chiaro come la custodia cautelare, anche nella norma novellata, costituisca in ogni caso l’ultima ratio sanzionatoria, applicabile solo “quando ogni altra misura risulti inadeguata”. Tuttavia, la custodia cautelare in carcere è obbligatoria, e deve essere necessariamente applicata, per un ventaglio oggi enorme di ipotesi delittuose. Una conseguenza diretta della natura emergenziale del c.d. pacchetto sicurezza, caratterizzato da tutti i difetti che connotano questo tipo di provvedimenti: approssimazione, caoticità, rigorismo repressivo, simbolicità, caduta in termini di garanzie che, nel corso degli ultimi anni, hanno progressivamente comportato un significativo inasprimento della normativa di diritto sostanziale ed un restringimento del campo di operatività delle misure alternative e premiali. Provvedimenti invocati ed annunciati come soluzione taumaturgica delle ricorrenti emergenze criminali (reali o presunte) che, anziché orientare positivamente le condotte dei consociati verso valori costituzionalmente rilevanti, riabilitano il concetto punitivo e satisfattivo della pena e delle stesse misure cautelari, concedondo spazio inusitato ai più truci istinti, senza tuttavia risolvere l’ansia da insicurezza che permea la società. Ed infatti la normativa dell’emergenza, nata dall’esigenza di dare una risposta esemplare alle istanze di sicurezza provenienti dai consociati, è strutturata esclusivamente sul versante del simbolismo efficientista proprio della politica spettacolare. Questo, da un lato viola i limiti costituzionali della funzione punitiva e, dall’altro, presenta un’efficienza protettiva ingannevole.

Al di là di tali considerazioni, la custodia cautelare in carcere è obbligatoria per tutte le ipotesi di reato previste dalla norma, “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. A tale riguardo, è stato affermato che «le esigenze cautelari relativamente ai delitti di cui all’art. 275 co. 3 c.p.p. sono presunte e possono essere soddisfatte unicamente con la misura coercitiva della custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che esse non sussistono» (Cfr., Cass., Sez. I, 15.06.1992, n. 2823).. «La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari è correlata al tipo di reato e persiste durante le diverse fasi processuali» (Cass., Sez. V, 7.10.1997, n. 4300). Tuttavia, nel caso in cui l’indagato in sede di Riesame presenti la prova contraria alla sussistenza delle esigenze, il Tribunale sarà obbligato a «motivare specificamente per dare contezza, ai fini di un controllo di legittimità, delle ragioni che lo hanno indotto a respingere la prospettazione» difensiva (Cfr., Cass., Sez. I, 15.06.1992, n. 2823). Ed infatti, di fronte alle contestazioni della difesa, le esigenze cautelari dovranno derivare da elementi di assoluto rilievo, tali da giustificare l’applicazione della misura custodiale. In tale contesto, non rivestono carattere di esigenza cautelare «la sentenza di condanna per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p.», in quanto la gravità della pena inflitta è solo uno degli elementi da valutare allo scopo di stabilire se vi sia pericolo di fuga». Al contrario, parametri valutativi necessari e sufficienti ai fini della sussistenza delle esigenze sono costituiti dalla «personalità del reo, dalla tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, le abitudini di vita, il pregresso comportamento…» (Cfr., Cass., Sez. V, 14.02.2005, n. 12869). In tale contesto, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha rilevato che «anche per il reato contestatato all’odierno ricorrente sussiste la presunzione di adeguatezza della misura cautelare inframuraria, presunzione superabile solo se il ricorrente provi la completa insussistenza di esigenze cautelati nei suoi confronti». E per la Corte, «è evidente che, nella specie, detta prova non è stata fornita dal ricorrente, il quale non ha dato prova di avere stabilmente rescisso i legami con l’organizzazione mafiosa, di cui è stato ritenuto intraneo». In sostanza, l’indagato sottoposto a misura custodiale non ha fornito la prova della rescissione del presunto rapporto con l’associazione mafiosa, ritenuto sussistente nella qualità di vero e proprio partecipe, per avere prestato la propria autovettura, accolto in casa gli amici provenienti dal Sud Italia ed in un’occasione prenotato per loro una stanza di albergo. Requisiti valorizzati dal Tribunale del Riesame quali gravi indizi di colpevolezza in ordine alla partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso, valorizzati quali parametri valutativi necessari e sufficienti ai fini della sussistenza delle esigenze cautelari.

In conclusione. Le esigenze della prevenzione ed i dubbi della condotta concreta.

E dunque, prestare un’autovettura – poi utilizzata in un agguato mafioso – accogliere in casa delle persone o prenotare per queste una stanza di albergo, secondo la prospettazione della Corte, costituirebbe a tutti gli effetti una condotta di partecipe intraneus ad associazione mafiosa. Una decisione che evidentemente promana da esigenze di carattere preventivo e di difesa sociale. Tuttavia, la prospettazione della Corte in concreto rischia di apparire eccessivamente lesiva dei diritti dei consociati, i quali potrebbero essere esposti a conseguenze gravissime – quali la custodia cautelare in carcere od addirittura le condanna per 416-bis – al di là della consumazione di condotte coscienti e volontarie, ma esclusivamente sulla base di una mera «presunzione di sussistenza di esigenze cautelari», e sulla base di una «presunzione» di colpevolezza. Una questione che in concreto già oggi coinvolge – e stravolge – intere vite di persone e famiglie, non già sulla base di dati obiettivi da cui si desume la loro fattiva partecipazione a sodalizi criminosi, ma al contrario in relazione a vere e proprie «presunzioni» di partecipazione. A tale riguardo, giova ricordare come la normativa in materia anti-mafia, assolutamente necessaria per stroncare il morbo cancerogeno potenzialmente mortale per lo Stato democratico e sociale di diritto, risponde a precise esigenze di difesa sociale, perfettamente compatibile in linea teorica con i principi di proporzionalità, prevenzione speciale e rieducazione. Tuttavia, la stessa normativa può assumere aspetti meno condivisibili, se non addirittura reazionari ed illiberali, se utilizzata fuori dell’alveo dei principi e dei valori costituzionali. In questo contesto infatti le norme in materia rischiano di assumere le vesti di una vera e propria presunzione assoluta di pericolosità, in grado di determinare qualità e modalità del percorso processuale dell’imputato e rieducativo del condannato, secondo criteri eminentemente oggettivi, senza lasciare alcuna possibilità per l’effettivo riconoscimento di innocenza dell’imputato ovvero all’effettiva individualizzazione del trattamento del condannato. Conseguenze non accettabili, ed anzi già espulse dal sistema dal Legislatore, in quanto lesive del principio di principi e valori costituzionalmente protetti. È chiaro come in tale contesto non sia assolutamente ammissibile, secondo i principi generali, l’applicazione automatica di un trattamento custodiale o penitenziario, solo sulla base del dato oggettivo del reato per cui si è indagati o condannati, senza tenere conto della condotta in concreto consumata dal soggetto, del dato psicologico – doloso o colposo – sottostante la consumazione della condotta medesima, delle caratteristiche personologiche del soggetto, ovvero del percorso rieducativo già intrapreso. In altri termini, ripresentare oggi la normativa antimafia come una novella presunzione di pericolosità non è accettabile. Essa al contrario deve essere ricollocata nell’alveo suo proprio, quale normativa necessaria al fine di contrastare ed eliminare dalla realtà dei fatti un fenomeno che vincola ancora intere regioni d’Italia all’egemonia di un sistema criminale arrecante gravissimi danni all’intero assetto socio-economico nazionale. Una necessità sempre più impellente, che richiama ancora di più l’esigenza di una rinnovata azione politica e giudiziaria che sappia individuare ove possibile elementi di giustizia sostanziale utili a debellare le condotte che con “coscienza e volontà” privilegiano lo spicciolo interesse personale al più generale interesse della collettività. Un’esigenza che, come confermano le cronache di oggi e di ieri, è sempre più impellente e necessaria, al fine di fermare il dilagare delle cellule cancerose nell’intero consortium civile e politico, ed affermare compiutamente i valori ed i principi propri dello Stato democratico e sociale di diritto.

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