Progetto InnocentI

Mentre l’Italia accetta il “ricatto” iraniano e libera Abedini, accusato di terrorismo, la Corte islamica conferma la pena di morte di Pakhshan Azizi

L’Iran conferma la condanna a morte per Pakhshan Azizi, detenuta nel carcere di Evin mentre il Governo Meloni libera l’ingegnere accusato dagli USA di terrorismo

Il ministro Nordio ha depositato alla Corte di Appello di Milano la richiesta di revoca degli arresti per il cittadino iraniano Abedini Najafabadi Mohammad. Lo rende noto il Ministero della Giustizia. Eppure gli USA lo accusavano di essere coinvolto in attività terroristiche, tanto da averne chiesto l’estradizione.

L’Italia, però, ha accettato il “ricatto”, ovvero lo scambio dell’ingegnere iraniano con la giornalista italiana Cecilia Sala “sequestrata” poche ore dopo l’arresto ddi Abedine. Non c’era altra scelta, vero! Ma abbiamo insegnato il metodo, in futuro accadrà ancora.

La Repubblica Islamica dell’Iran rimane uno Stato terrorista, in queste ore arriva la notizia della condanna a morte di Pakhshna Azizi,  40 anni, attivista per i diritti delle donne,  ritenuta colpevole di “ribellione” dopo l’arresto avvenuto nell’agosto del 2023. Un’altra barbaria di un Governo con cui abbiamo trattato.

Azizi era stata condannata dal Tribunale rivoluzionario di Teheran il 24 luglio con l’accusa di «ribellione armata contro lo Stato» e per il suo coinvolgimento in gruppi di opposizione al regime. L’accusa di appartenenza ai gruppi separatisti curdi o beluci è ripetutamente utilizzata dai tribunali iraniani per non provocare empatia tra la popolazione.
Azizi, nata a Mahabad, nell’Iran nord-occidentale, fu arrestata per la prima volta nel 2009 durante una manifestazione di protesta degli studenti curdi dell’Università di Teheran contro l’esecuzione di un prigioniero politico curdo. Dopo quattro mesi di detenzione fu rilasciata su cauzione. All’epoca era una studentessa di scienze sociali presso l’Università Allameh Tabatabai di Teheran. In precedenza aveva collaborato con associazioni non governative attive nel campo sociale e in quello delle problematiche relative alle donne.
Nel 2008 faceva parte di un gruppo che conduceva ricerche e studi sul tema della «circoncisione femminile». Insieme a un gruppo di attivisti per i diritti delle donne nel Kurdistan iracheno, e in collaborazione con alcune ong e il governo della regione del Kurdistan, raccoglie informazioni significative su questo tema. Si trasferì nel Kurdistan iracheno dopo aver completato gli studi e iniziò a collaborare con associazioni femminili coinvolte nelle attività sociali. Nell’autunno del 2014 si recò nel nord della Siria, nella città di Qamishli, per prestare aiuto nei campi dei rifugiati, assistendo donne e bambini traumatizzati.

Nell’estate del 2023, dopo circa dieci anni, tornò in Iran per incontrare la sua famiglia. La mattina del 5 agosto fu arrestata insieme al padre e a altri due membri della sua famiglia. Fu sottoposta a interrogatori presso l’intelligence detention center prima di essere trasferita al reparto 209 della prigione di Evin e successivamente al reparto femminile. In una sua lettera pubblicata dai media Kurdpa riferì che le avevano legato le mani dietro la schiena e le avevano puntato un’arma alla testa.
Nessuna delle obiezioni sollevate riguardo al suo caso ha ricevuto attenzione dalla Corte suprema, scrive l’avvocato dell’attivista Reisiian: «La Corte non ha preso in considerazione che le sue attività nel nord della Siria, nei campi dei rifugiati di Shengal e in altri campi dei rifugiati della guerra contro Isis, sono state azioni pacifiche, senza alcun aspetto politico, finalizzate ad aiutare le vittime degli attacchi di Isis», conclude l’avvocato.
Il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, in congedo per malattia dal carcere di Evin, ha scritto sul suo account Instagram: «Con l’esecuzione di una “donna prigioniera politica” il regime vuole punire il movimento di Donna, Vita, Libertà. Gli iraniani, i sostenitori della libertà in tutto il mondo, le organizzazioni internazionali per i diritti umani e le Nazioni unite devono unirsi contro la politica delle esecuzioni. È nostro dovere non rimanere in silenzio».

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